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RIpensando il dolore

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Qualche tempo fa stavo leggendo un testo di Marco Guzzi, intitolato Dalla fine all’inizio. A un certo punto a pagina 50 compare una citazione di Denis de Rougemont tratta da un suo famoso saggio, L’amore e l’Occidente. Mi viene in mente allora che in un angolo nascosto e polveroso della libreria, da qualche parte, avevo di questo autore svizzero un’opera intitolata Penser avec les mains. L’avevo acquistata forse una quarantina di anni fa alla libreria Feltrinelli di Bologna, che aveva appena aperto il settore internazionale con testi in lingua straniera. Non ricordo perché quel libro mi avesse particolarmente colpito, forse era uno dei pochi in francese che al tempo mi sembrava di capire o forse mi aveva attirato semplicemente il titolo. È una cosa che faccio spesso, di farmi ispirare da dettagli insignificanti come la grafica della copertina, la rilegatura, il tipo di carta e il font dei caratteri, l’odore delle pagine…

Ricordavo, quando ho recuperato Penser avec les mains salendo sulla scala, che Denis de Rougemont è stato un pensatore cristiano e questo mi rendeva un po’ diffidente (forse anche per questo lo avevo abbandonato). Tuttavia, quelle pagine così ingiallite e la stampa un po’ sfocata a causa della porosità nella carta, mi hanno in qualche modo intenerito. (C’è anche da dire che, nel tempo, la mia diffidenza verso i credenti ho imparato a combatterla: prima di tutto da quando ho conosciuto mia moglie e poi, ultimamente, dopo che ho incontrato… il pensiero di Guzzi!)

Credevo di dare semplicemente uno sguardo frettoloso a quel libretto datato, scritto tra il 1933 e il 1936, giusto per vedere di che cosa trattava e se conteneva nulla di interessante. Invece, sono rimasto letteralmente catturato da quelle parole (per me non sempre di facile fruizione), ma soprattutto dalla chiarezza del pensiero che sembra perforare il tempo e rivolgersi direttamente a noi, alla nostra società che pare l’esemplificazione perfetta di quella dell’uomo che il filosofo chiama proletarizzato. Ciò che lui diceva quasi novant’anni fa non solo si è rivelato essere del tutto tragicamente vero, ma anzi ci fa capire che noi rappresentiamo il pieno successo dell’ideologia della società borghese di allora (oggi divenuta ben altro), che de Rougemont tratteggiava con tanta lucidità a pochi anni dalla seconda guerra mondiale. Un paragrafo, tra i tanti brani davvero illuminanti, è intitolato Il pensiero senza dolore, con riferimento al fatto che i cosiddetti pensatori (“clercs” in francese), che possono essere filosofi, scienziati, economisti, politici, giornalisti, sono in realtà intrappolati dentro un dire assolutamente innocuo, nelle cui parole non c’è nulla di veramente creativo, perché tutto è assoggettato a un linguaggio neutro, ogni confronto abolito in nome del sapere scientifico. Si tratta, dunque, letteralmente di un pensiero senza dolore perché nessuno ormai vuole più farsi carico con sofferenza (quando e se necessario) delle proprie responsabilità e preferisce – come dice Montaigne – recitare il proprio ruolo piuttosto che costruirlo lui stesso.

Mi è venuto da collegare questo concetto costruttivo di dolore con ciò che stiamo vivendo oggi nel pieno di una crisi (pandemica) mondiale. Se guardiamo i telegiornali o qualunque show televisivo, siamo letteralmente invasi, travolti da una sofferenza preconfezionata che consiste, se ci facciamo caso, unicamente in un lunghissimo e asettico elenco di persone infettate, ammalati deceduti, ospedali in crisi per eccesso di ricoveri, crollo delle borse, default economico, ricadute irreversibili sul nostro stile di vita quotidiano (quanta carta consumiamo quando andiamo in bagno…). Cifre, percentuali, proiezioni, record. Appunto, soltanto pure descrizioni, apparentemente oggettive, apparentemente analitiche, apparentemente commosse. In un tale quadro complessivo anche accennare a quale sarà lo sviluppo tra uno o due mesi della situazione attuale, viene preso come il più sovversivo degli atteggiamenti. È ovvio che dopo ore e ore e ore di simili notizie, non ne possiamo più della spettacolarizzazione del dolore e l’unica cosa che abbiamo voglia di fare è distrarci, parlare di fesserie, smettere di pensare a quello che accade fuori. Quindi, guai a proporre durante una telefonata, un post in un social network, una email, una chat, una chiacchierata da balcone a balcone, un’analisi dello stato di sofferenza in cui siamo immersi diversa da quella inflazionata proposta dai media. Ci viene concesso soltanto di oscillare quantisticamente tra uno stato di isteria e uno di obnubilamento – o al massimo di esperirli contemporaneamente (cosa ancora più stressante).

Invece, quello che mi viene voglia di fare è capovolgere la situazione e riappropriarmi del mio dolore (che non è fatto di statistiche), un dolore che abbia un senso, che mi riporti alla mia personale responsabilità, che liberi la creatività, che mi faccia chiedere senza compromessi o sconti perché tutto questo sta accadendo e come si è sviluppato, al di là delle apparenze. E qual è il mio compito. Il coronavirus può essere anche fatalità, può essere anche un incidente di percorso non voluto. Ma il punto chiave è che, una volta recuperata l’onestà interiore, dobbiamo cercare di capire che cosa ha determinato le conseguenze catastrofiche a cui stiamo assistendo le quali, più che la longa manus del destino, sembrano essere quelle di scelte politiche ed economiche che certamente non hanno tra i loro obiettivi primari dei valori veramente umani e la salvaguardia dei più deboli.

Così, preferisco disintossicarmi da tutta questa sofferenza patinata, piena di lacrime recitate, di discorsi elettorali (direbbe sempre de Rougemont), e ritirarmi nei recessi incontaminati dell’anima alla ricerca di in un dolore autentico che, in quanto tale, può farmi trovare poi le risorse per trasformarlo in una nuova voglia di vivere – e di vivere in modo diverso da ora. Riscoprendo una creatività che mi restituisca a un più genuino rapporto con me stesso e con gli altri, fatto anche di leggerezza, ma ben ricordando che: «Ogni atto creatore contiene una minaccia reale per l’uomo che lo osa».

Post scriptum

Quando mi è stato comunicato dalla redazione che questo post sarebbe stato pubblicato sul sito di Darsi Pace il 30 aprile, ho fatto un’altra associazione. Mi sono ricordato che a partire dal primo marzo, dal punto di vista numerico i giorni coincidono esattamente con quelli del diario di Etty Hillesum. Così, prendendolo come un signum, sono andato a leggere proprio le pagine relative al 30 aprile 1942, che è appunto un giovedì, al termine del quaderno VI. E ho trovato le parole che seguono, che possono aggiungere un ulteriore senso a quanto stiamo attraversando ora noi. Dice Etty, mentre le restrizioni imposte agli Ebrei dagli occupanti nazisti si stanno facendo sempre più dure: «Forse vale davvero la pena di essere coinvolti personalmente nelle vicende della storia. In questi casi puoi sul serio raccontare ciò che i libri di scuola tralasciano.»


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